Discussione e ricerca



Il vizio assurdo dell’Occidente, 

lo strazio della Palestina 

e il crepuscolo della ragione empatica

 

Intervista allo storico Carlo Ruta sulle crisi e gli scenari di guerra che stanno 

scuotendo il mondo contemporaneo

 

 

Da studioso della storia, può dire qual è la situazione oggi? 

È quella di un morbo che negli ultimi decenni è andato progredendo, ha seminato strage e in questi anni ha accelerato la sua corsa distruttiva. Dopo l’avventura finita male del Vietnam, che ha prodotto diversi milioni di morti civili, e dopo la parentesi della presidenza di Jimmy Carter, una delle più pacifiche nell’America del Novecento, tutto si è rimesso in moto negli anni di Ronald Reagan, quando, fermato il processo di autoanalisi che si era aperto nelle opinioni pubbliche negli anni 60-70, gli Stati Uniti riprendevano politiche estremamente aggressive e belliciste. Il peggio è arrivato però dopo il 1989, quando l’America ispirata dal Pentagono si è convinta di essere ormai il legittimo conduttore e garante dell’intera scena globale. Questo attore geopolitico si è ritrovato allora sempre più pericolosamente esposto, ossessionato, mosso da politiche distruttive e prive di orizzonti oltre che di senso, tanto più dopo l’11 settembre 2001. Si arriva così all’oggi, alle soglie ormai del non ritorno. 

Il mese scorso lei ha dato alle stampe un libro che s’intitola «Il precipizio dell’Occidente», e il sottotitolo aggiunge «Dai fuochi di Baghdad alla morte di Gaza». Qual è l’Occidente di cui parla e cos’è il precipizio? 

L’Occidente è quello euroatlantico che fa capo appunto alla potenza statunitense. Questo lavoro prende spunto dalla crisi dell’Ucraina e dallo sterminio in Palestina ad opera di Israele e inquadra, evitando ogni orpello retorico, la storia dell’ultimo ventennio. Obiettivo di questo lavoro, diviso tra passato e presente, è quello di documentare i fattori che hanno spinto il sistema occidentale agli orrori di questo tempo. La storia ovviamente, lunga o ‘corta’ che sia, non è mai predittiva, ma fornisce impronte, segnali, sequenze e appigli che, ad una lettura accurata, possono aiutare a comporre tasselli mancanti e tentare riquadramenti di prospettiva. Proprio dai modelli delle guerre di questi decenni, «morali», «democratiche» e «umanitarie», si possono ricavare poi piste e orientamenti. 

La storia, lei dice, è orientativa. Dove si sta andando? 

La realtà è quella di un mondo confuso che sta dilapidando risorse materiali, intellettuali, morali e civili immense. E questa situazione evoca sempre più il primo Novecento, europeo in particolare, che in poco più di 20 anni, con i morti delle due grandi guerre e quelli di grandi epidemie, carestie e povertà estreme che ne furono conseguenza, portò quasi alla decimazione del genere umano. I contesti sono però mutati e i rischi sono molto più elevati, poiché tutto avviene oggi negli orizzonti di un mondo super armato e nuclearizzato. Terrorizzato anche dalla sua ombra, l’Occidente in crisi si ritrova scopertamente terroristico, mentre non smette di atteggiarsi, quasi misticamente, a difensore di ‘valori supremi’, che contraddice senza ritegno giorno dopo giorno. Tutto questo non può che lasciare sgomenti. 

Le cause di tutto ciò sono solo politiche? 

Le cause, ovviamente, non sono solo politiche e geopolitiche: a questo punto sono anche antropologiche. Stanno agendo pulsioni profonde, come quelle appunto che hanno contribuito a scatenare i due grandi conflitti del XX secolo. Nei modi d’essere delle politiche e nel loro approccio con la realtà si è aperta una lesione che sta provocando mutamenti radicali, fino a pochi anni fa insospettabili al senso comune. Questa lesione antropologica, già avvistata come pulsione regressiva di morte da Sigmund Freud nel 1915, quando si era nel pieno della guerra in Europa, e dallo stesso psicologo discussa nei primi anni ’30 in un carteggio con Albert Einstein, si esprime da 30 anni a questa parte con una conflittualità sterminatrice. A darne atto sono i milioni di morti civili lasciati dalle invasioni a guida statunitense in varie parti del Globo, senza che nessuno abbia pagato mai il conto. George W. Bush, ad esempio, comandante in capo di guerre risultate immotivate che hanno prodotto vere e proprie ecatombe in Iraq e in Afghanistan, sta vivendo serenamente la sua vecchiaia, senza che nessuna corte penale internazionale gli abbia mai addebitato un crimine di guerra.  

Perché questo accade e non si manifestano aree di dissenso significative? 

Il mondo «aperto» di cui parlava l’epistemologo Popper che, come Kelsen, Bobbio e altri, raccoglieva gli umori delle autoanalisi di cui si diceva prima, si è in realtà chiuso tragicamente, facendosi catatonico . Gli spazi reali di diritto e di libertà si sono contratti nella sostanza, svuotati da una finzione «democratica» che negli ultimi 20 anni rasenta l’inverosimile. È l’effetto di un potere imperiale, emulo dichiarato dell’antica Roma, ma solo emulo, che si autolegittima da una lato ricorrendo sempre più alla forza militare, dall’altro ad un uso sempre più paradossale della mistificazione, che, cosa del tutto anomala nella storia, oggi arriva a soggiogare anche coloro che ne fanno uso. 

Può spiegare? 

Superando il metodo Goebbles, secondo cui una falsità ripetuta tante volte finisce con l’essere percepita dalle popolazioni come una verità, i governi occidentali, non ingannano solo le opinioni pubbliche e gli elettori ma, paradossalmente, anche sé stessi. E le conferme sono continue. Per questo autoinganno l’Occidente da due anni riesce a sostenere, armandola, una guerra ‘impossibile’: quella che si combatte in Ucraina. Già perduta sul terreno militare, proprio a causa della cecità politica e geopolitica che l’ha generata, e diventata pericolosamente ibrida, asimmetrica e terroristica, questa guerra, come si usa dire oggi, «per procura», rompe di fatto ogni schema. Per radicalità supera infatti il tradizionale realismo militarista che ha ispirato le politiche più aggressive statunitensi del Novecento. In questi due anni, perfino Henry Kissinger in persona, massimo macchinatore della guerra del Vietnam, ha dovuto spiegare ai governi occidentali la madornalità  dei loro errori strategici, ma senza alcun esito. Si è entrati quindi in un vortice di rilanci, tipico del giocatore compulsivo che non sa perdere e proprio per questo accelera il tempo della rovina.    

Ma non esistono dei consiglieri pagati proprio per venire in soccorso degli Stati sul piano strategico?  

I Think Tank più potenti e referenziati, i «serbatoi di pensiero» di cui si servono gli Stati occidentali, dovrebbero in effetti attivarsi per fornire rimedi ad una crisi di sistema che rischia di diventare incontrollabile, ma essi stessi sono in realtà parte della patologia, politica e antropologica, che dovrebbero curare. Sono diventati infatti gli ispiratori più accaniti della guerra ibrida e delle mistificazioni correnti. Uno dei più influenti di questi centri è ad esempio il britannico International Institute for Strategic Studies, che sostiene tra l’altro l’idea delirante di una Russia pronta ad assaltare l’Europa, riproponendo di fatto in maniera parodistica un topos propagandistico degli imperi coloniali europei del tardo Ottocento e del primissimo Novecento.  

Perché questa guerra è emblematica  e molto pericolosa per i destini umani?

Lo scenario russo-ucraino è quello di un conflitto territoriale, di un’area di confine contesa, a sfondo quindi nazionalistico, come tanti nella storia contemporanea e in ogni parte del Globo. La via naturale per una soluzione, dopo il fallimento dei protocolli di Minsk del 2014 e dell’anno successivo, sarebbe dovuta essere in primo luogo, per sano buon senso, quella di intensificare la mediazione europea. Tanto più dopo l’eruzione armata del febbraio 2022, l’Unione Europea avrebbe potuto e dovuto dare il meglio di sé, riscoprire addirittura la sua ragion d’essere originaria, di caposaldo della pace nel continente, prefigurata dal Manifesto di Ventotene del 1941 e sostenuta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e da tutti gli europeisti di quelle stagioni novecentesche. Invece, succube dell’imperialità statunitense, essa si è imbarcata di fatto in uno scontro totale: un folle gioco d’azzardo che rischia di far esplodere il mondo intero. Secondo diversi punti di osservazione indipendenti, l’esito provvisorio di questi due anni di guerra può aver già superato di gran lunga il mezzo milione di morti ucraini e russi, in larga parte giovanissimi, ma il massacro continua e l’UE, senza alcuna remora, si è addirittura impegnata ufficialmente per armare il conflitto per i prossimi quattro anni. E qui la storia si riavvolge tragicamente.

In che senso si riavvolge tragicamente?

C’era una volta un Occidente plurale, diviso al proprio interno, anche verticalmente, ma comunicativo,  che dopo le grandi catastrofi del Novecento decideva di rivedere le cose e rivedersi. In quel mondo euro-atlantico si manifestavano anche autoanalisi importanti, spesso sincere e profonde, che venivano sostenute da vasti movimenti d’opinione. In quei decenni avvenivano i processi di decolonizzazione, i negoziati strategici per il disarmo, il sostegno ai movimenti di liberazione, l’impegno degli Stati sui fronti delle disuguaglianze e dei diritti, la crescita di movimenti anti-apartheid e tanto altro. Adesso quell’Occidente che riusciva a  mettersi in discussione e ad elaborare addirittura dei sensi di colpa non c’è più. Quello che lo ha sostituito è un sistema cupo e nichilista, immobilizzato dalla morsa delle proprie pulsioni di morte. È lo scenario di oggi, che con pochissime eccezioni non risparmia le opinioni pubbliche e le società civili.  Masse di intellettuali si sottomettono e, come avveniva ai tempi del duce e del führer, rinunciano alla loro funzione critica oltre che alla loro dignità. Il mondo scientifico, che potrebbe spendere parole importanti, è andato liquefacendosi in silenzio. L’informazione che più dialogava con i potenti, mantenendo comunque un briciolo di autonomia, si è arruolata in servizio permanente effettivo. Le opinioni pubbliche, stordite dalle manipolazioni a reti unificate, sono infine disorientate.

Come si inscrive in questo scenario quel che avviene nella striscia di Gaza?

Si tratta della prova del nove del degrado in atto, anche antropologico. Questo mondo euro-atlantico, al di là del teatrino delle parti, in realtà molto scoperto, sta sostenendo all’unisono Israele nella distruzione integrale di Gaza, città palestinese di oltre due milioni di abitanti, e di altre città della striscia, come Khan Younis e Rafah. Questo fatto, avvenuto a freddo, si colloca tra i più orrendi in assoluto della storia contemporanea, con diverse decine di migliaia di morti civili già contati in appena 120 giorni, di cui almeno il 40% bambini. Si sta facendo e si farà di tutto, a operazione chiusa, per nascondere l’«arma del delitto» e far dimenticare le atrocità compiute, che contemplano tra altro l’uccisione di poco meno di 150 giornalisti, per lo più arabi, e di numerosi loro familiari: fatto questo senza alcun precedente  dal secondo dopoguerra ad oggi. Sono prevedibili improvvise aperture di «dialogo» e perfino proposte di «soluzione», per far dimenticare. Una cosa è però certa: questo sterminio che continua ancora, oltre il siparietto, con l’avallo manifesto degli Stati Uniti e dell’Europa, non potrà più essere cancellato dalla memoria storica del mondo che verrà. Israele e i suoi «civilissimi» complici d’ora in avanti dovranno convivere con questa infamia perenne. Non c’è infatti atto terroristico, per quanto esecrabile possa essere, come quello avvenuto il 7 ottobre 2023, che possa giustificare un simile annientamento di massa, scomposto e demente, frutto anch’esso di una alterazione antropologica oltre che politica, come lo furono, appunto, gli orrori del primo Novecento.  

La redazione







Il paradigma di Homo Faber e civiltà di Carlo Ruta 

e il punto di vista epistemologico 

Giuseppe Varnier

Epistemologo, Università di Siena

 

L’«inventore» della filosofia della storia, Hegel, faceva iniziare la sua narrazione fondativa dalla Cina e dall’India, due civiltà «letterate». E questo continuò a lungo. Semplicemente, ancora non si aveva, in quell’epoca, consapevolezza alcuna delle abissali profondità cronologiche che precedono l’esistenza della condizione umana moderna, e di fronte a cui meno di diecimila, lunghi anni di storia propriamente detta impallidiscono: milioni di anni nel processo di ominazione, circa duecentomila anni dalla dispersione dall’Africa di homo sapiens, decine e decine di migliaia di anni di preistoria e poi protostoria, in cui si preparavano le prime e primitive testimonianze strumentali e simboliche che illustrano l’ascesa dei nostri antenati. Si pensi che tra la probabile acquisizione di un linguaggio di tipo moderno e la storia propriamente detta passano probabilmente più di centomila anni almeno. Questi abissi di tempo, difficili da immaginare, pure non furono certamente vuoti, tutt’altro. In essi almeno si prepararono e svilupparono le condizioni materiali, e la cultura materiale, che avrebbero permesso, alla fine di una complessa vicenda non teleologica, lo stabilirsi delle prime civiltà, ed infine l’avvento della scrittura. Il possesso dei mezzi materiali, progressivo e dalle lontanissime basi di partenza, va pensato in questo quadro aperto alla natura dell’uomo e alla sua complessa materialità.

Cercare di capire le interazioni umane col mondo che presiedettero a questo processo è quindi tuttora oggetto di tentativi tanto doverosi quanto sempre di nuovo all’inizio, e sempre confrontati con sfide assai complesse. Nel suo ultimo libro, che propone, ambiziosamente ma non a torto, tutto un nuovo paradigma, Carlo Ruta rintraccia efficacemente soprattutto quei processi di trasformazione, di civilizzazione, di apertura di rotte (soprattutto di mare, ma non solo), e di innovazione tecnologica, dagli episodi cruciali sparsi nei secoli e nei millenni, che hanno condotto gli uomini direttamente nostri antenati dalla più antica preistoria, attraverso la cosiddetta protostoria, sino all’alba della storia propriamente detta – con la finale invenzione della parola scritta al servizio della comprensione di tutte le altre invenzioni precedenti, e di quelle future. Un elemento concettualmente assai interessante della trattazione è nel fatto che l’Autore, con una sorta di «logica combinatoria», parte dagli elementi primi a disposizione di ogni civiltà (il legno, il fuoco, i vari metalli, «l’elemento acqueo», la pietra, ecc.), per vedere come essi entrino in relazioni possibili, e poi variamente realizzate, e come alcune di queste traccino percorsi per così dire a priori, e ricchi di significato e concretizzazione.

Ecco dove, secondo me, l’effettiva novità del paradigma può ravvisarsi. V’è, in effetti, molto di proficuamente hegeliano, e forse di bachelardiano – e in breve di positivamente filosofico – in tali procedure «combinatorie», che illuminano bene ciò che vi è di fisicamente, organicamente necessario, e ciò che vi è di contingente, ed anche storico, nelle interazioni tra l’uomo e i materiali che popolano il mondo umano, e che costituiscono per così dire la dotazione preliminare, ed universale, di ogni possibile processo di civilizzazione, per quanto elementare (ed anche la geografia ha qui enorme importanza) – sino ad arrivare a vere e proprie tecnologie relativamente avanzate, su cui pure l’Autore si sofferma. Ne scaturisce un panorama variegato e complesso,che partendo dalle generalità, ed avendole, come si è detto, sempre ben presenti, infine si concentra su una serie di concreti problemi ed eventi: la transizione tra Paleolitico e Neolitico, col ruolo complesso ed ancora imponente del legno; la persistente importanza della pietra per la cerealicoltura; l’affinamento progressivo sin dalla Grecità, ed anche prima, degli strumenti in metallo lavorato; la «sintesi» per così dire «ingegneristica» romana, che elide la teoresi ma realizza una poderosa cultura dei macchinari; i trasporti di terra in connessione con la tecnologia bellica.

Ma lo sguardo dell’analisi è a tutto campo. Ruta analizza anche gli analoghi sviluppi della Cina Han, dove l’altissimo sviluppo della siderurgia condusse ad un «macchinismo» per nulla inferiore a quelli alessandrino e romano. Lo homo faber è tutti gli uomini, e le civiltà umane offrono risposte diverse o simili, a problemi o eterni o contingenti, secondo le loro dotazioni universali di partenza, ma anche secondo le contingenze geografiche e materiali entro cui si trovano ad operare. Il sismografo inventato per la prima volta in Cina costituisce un bell’esempio di questa diversificazione a partire anche da condizioni in qualche modo a priori. La diversificazione in ultima analisi conduce sempre a postulare e descrivere diversi sistemi influenti di credenze e differenti schemi concettuali, sorti dalle diverse sfide che la natura pose e pone, ad es., alla Cina e ai popoli mediterranei – rispettivamente più legati, almeno all’inizio, alla terra e al mare. Le esigenze e le tappe principali di progresso, pur diversamente scalate ed accentuate, restano però comuni, in quanto, alla base, panantropiche; si legga per esempio: “[…] qualcosa di analogo accadeva nell’Eurasia mediterranea, con cronologie e dialettiche tra mare e terra differenti e perfino rovesciate ma con il persistere dei canovacci relazionali e con esiti ancora originali e paradigmatici. Anche in Occidente il legno costituiva la materia tecnologica più utilizzabile, in contesti operativi e di vita che forse con un qualche anticipo consentivano ai gruppi umani di mobilitarsi, con imbarcazioni e tecniche in sviluppo, lungo le rotte marine” (pp. 57-58). Il legno, alleato coi metalli, crea ovunque una rivoluzione ancor più profonda di quella del Neolitico.

Nei capitoli successivi si tratta: dell’inizio del vero «governo del mare» – della distesa ampia e salina – attraverso scoperte e premesse inizialmente acquisite tra il Calcolitico e l’età del Bronzo; del successivo trionfo della metallurgia (prima rame indurito, poi bronzo), necessitata a sua volta anche dai progressi dell’industria lignea e litica, che premevano ancora per progressi ulteriori; la susseguente crescita, anche per gli inevitabili e così dedotti scompensi socio-economici susseguenti, degli strumenti tecnologici bellici, fino al Ferro; la sopravvivenza della pietra, ora squadrata e ingegnerizzata, e dell’argilla; verso l’epoca del Rame, il consolidarsi della scoperta della scrittura, che traghetta fuori della preistoria ed è spia di un maturato bisogno sociale – e mostra inoltre, nella sua materialità quasi «liquida», impreviste consonanze strutturali e concettuali, più che coi metalli, con lo stesso legno ingegnerizzato.

Questo nuovo paradigma, applicato a tutta un’ampia gamma di casi epocali, vede dunque lo snodarsi delle vicende umane protostoriche e preistoriche, soprattutto, alla luce di un quasi necessitato giuoco dialettico tra geografia e condizioni primarie, istinti ed impulsi umani fondamentali, e soprattutto materiali e mezzi via via a disposizione – come si è detto all’inizio – che così vengono come «ritratti» con inusuale vivezza. Questo aspetto mi pare fondamentale e particolarmente prezioso per capire chi è homo faber, cioè chi siamo noi, in fondo, ancora oggi. L’analisi, tutta interna alle condizioni materiali, è però capace di notevoli aperture a dimensioni più «mentali», come si è indicato (vedi per es, pp. 89 e ss., e quanto si è notato sulla scrittura). La domanda è sempre, per ogni tipologia materiale-strutturale: «quali modelli e quali risorse razionali si liberavano attraverso quei processi costruttivi e quelle modalità di lavoro?» (p. 97). Di qui, oltre che inferenze alle sovrastrutture di pensiero (ad es. l’arte religiosa e funeraria) si rilevano anche «sincronismi», così inevitabili, tra civiltà diverse, diversamente situate nello spazio e sfasate nel tempo.

Chi scrive non è uno storico, tantomeno uno storico della civilizzazione materiale. Può giudicare solo dello stile di analisi in astratto, e della prospettiva epistemologica. Entrambe appaiono nuove ed avanzate, con risvolti filosofici che sono, come si è detto, ampi ed estremamente suggestivi. L’acqua, la pietra, il legno, il metallo, la terra hanno plasmato il nostro mondo attraverso di noi. È una vicenda in apparenza decentrata rispetto al soggetto umano, ma ricca di implicazioni per esso anche ai più alti livelli di attività intellettuale, che Carlo Ruta ha bene cominciato a raccontare.



Homo faber e civiltà di Carlo Ruta

Recensione di Giuseppe Foglio*

(uscita su Il Pane e le Rose)

 

Sviluppo coerente dei precedenti lavori Il legno nella storia. La forza influente della materia “debole” nei percorsi di civilizzazione e nei processi formativi delle razionalità, Convegno tenutosi a Ragusa il 21 luglio 2022 presso il Laboratorio degli annali di storia e di La lunga età del legno. I paradossi della materia “debole” e le rotte della civiltà (rispettivamente Ragusa, Edizioni di studi storici e sociali, 2022, 2020), il testo qui presentato aggiunge un altro snodo importante alla ricerca di Carlo Ruta sui processi formativi delle civiltà e delle razionalità. La traccia principale seguita in quei lavori riguardava la capacità mostrata dal legno di fornire una mediazione tra la pietra e i metalli, tanto da spingere l’autore a proporre la tesi di un’età del legno da collocare, a precise e rigorose condizioni metodologiche ed epistemologiche, tra l’età della pietra e l’età del ferro.

In questo caso, il framework si amplia nel tempo e nello spazio, e si specifica quanto agli sviluppi che le tecnologie materiali hanno avuto sulla formazione della razionalità. Tanto che dopo questi studi, emerge sempre più chiaramente che l’homo faber è il terminale di una lunga serie di processi e non il soggetto presupposto della Storia.

In particolare, Ruta si concentra sugli sviluppi interni all’età del legno, determinati in particolare dal parallelo sviluppo della lavorazione del rame tra il VII e il IV millennio. Metallo duttile e dunque lavorabile più facilmente del bronzo e, soprattutto del ferro o dell’acciaio, il rame ha suggerito all’homo ligneus un enorme salto di qualità nella sua capacità di lavorare sia il legno, sia la pietra. Più che per la realizzazione di prodotti finiti a scopo simbolico, il rame si è prestato per la produzione di utensili e mezzi di produzione, destinati alla lavorazione del legno e della pietra.

La combinazione della materia (legno, pietra) e delle tecniche di connessione (incastri del legno a tenone e mortasa; ammorsamenti e sviluppi lineari mediante piombo e livella delle grandi costruzioni edilizie a blocchi squadrati e pietrisco) è stata possibile proprio grazie al mezzo (utensili da taglio, perforazione, levigatura) fatto per la prima volta di rame. Nella lunga età del legno, dunque, va evidenziato il ruolo dell’Uomo del Rame, come snodo e intreccio di luoghi, pratiche, bisogni, scambi, conflitti e saperi che porta all’età del ferro, cioè all’homo faber e alla Storia.

Ma vediamo rapidamente quali processi la connessione legno-pietra-rame abbia innescato, o accompagnato. Quanto ai progressi nella lavorazione del legno, secondo Ruta, materia-guida della civiltà, il rame, principalmente, ha favorito la nascita della navigazione marittima. Essa, infatti, è resa possibile solo da imbarcazioni costruite con tavole e non più da piroghe monossili.

Il suo presupposto fu l’utilizzo del bambù in Cina, o dal papiro in Egitto, usati per costruire imbarcazioni in grado di soddisfare le crescenti esigenze economiche, in termini di volumi di trasporto (che si tratti di uomini o merci, non importa), e tecniche, in termini di manovrabilità e resilienza dell’imbarcazione. Ma, la sostituzione del monolite scavato con il composto autoportante, o intelaiato, di scafo, ponte e stiva, divenne effettivamente possibile solo grazie alla possibilità di tagliare, curvare e incastrare il legno. Il che presuppone attrezzature efficaci, precise e maneggevoli, che per la prima volta il rame ha suggerito.

Tale sviluppo assume il suo significato pienamente epocale proprio perché tale sistema di navigazione, efficacemente, consente di affrontare il mare, trasformando finalmente i poli della civiltà mediterranea (Mesopotamia, Egitto, Medio Oriente, Grecia e, infine, Roma) in un mondo interconnesso ed unificato. Secondo Ruta, la nave porta alla massima espressione le funzionalità del legno, o meglio del legno-rame, già espresse nella nozione di macchina (di sollevamento, di trazione, di misurazione, di raccolto, di guerra). La nave, infatti, è un sistema sociale completo, non solo un dispositivo tecnico. Essa conduce l’uomo in un altro elemento, il mare, trasformandone completamente la soggettività: il mare infatti porta ad elaborare un’antropologia intera del tempo, dello spazio, dello scambio con l’altro, della morte e del sacro.

In secondo luogo, il nesso legno-rame ha consentito lo sviluppo di tecniche edilizie in territori, come la Cina, dove è la terra, e non il mare a sollecitare l’uomo alla creatività e alla resilienza. Terremoti, piogge, venti hanno portato alla nascita delle più iconiche forme costruttive della casa in legno cinese. Ma anche qui, lo sbocco in mare della civiltà rurale e fluviale è stato inevitabile, arrivato infine con le più note navi di giunchi, che hanno segnato uno dei momenti cruciali nel passaggio dal medioevo all’età moderna. Ma questa è un’altra storia.

Se passiamo al nesso pietra-rame, osserviamo come il progresso fondamentale che ha consentito la nascita delle città, dei grandi monumenti o siti funerari, degli impianti di fortificazione, è l’adozione della tecnica di costruzione a blocchi squadrati e pietrisco. Adottate separatamente, o congiunte, esse hanno consentito la costruzione di enormi impianti edilizi e urbanistici grazie all’utilizzo di materiali economici e resistenti: la pietra o il mattone di argilla cotta. Anche qui, tuttavia, il cuore dello sviluppo è rappresentato dal collegamento di elementi portanti in modo da formare un tutto flessibile rispetto alle innumerevoli soluzioni formali. Tuttavia, è solo grazie agli utensili in rame per la lavorazione dei blocchi che queste tecniche hanno potuto iniziare il proprio sviluppo, dando vita ai più suggestivi prodotti della civiltà, funzioni e simboli essi stessi dell’esperienza storica dell’uomo.

Oltre a questi sviluppi specifici nella storia dei materiali e delle tecniche, la vicenda del rame consente di comprendere altri due momenti essenziali della genealogia dell’homo faber. In primo luogo, come suggerisce Ruta già dalle prime catene di riferimenti che intessono la sua narrazione, va evidenziata la sincronia di questi sviluppi tra Occidente mediterraneo e Oriente indiano e soprattutto cinese. Il rapporto di mutua formazione tra uomo e materiale della civiltà apre quindi un taglio trasversale tra aree del mondo ritenute separate e isolate per millenni. Di fronte a ecosistemi diversi (il mare nel Mediterraneo, la terra in Cina), l’uomo ha utilizzato gli stessi materiali per giungere alla formazione di civiltà in grado di sopravvivere materialmente, realizzare scambi e dare compimento simbolico-rappresentati-vo alla propria soggettività.

In secondo luogo, e si tratta delle conclusioni cui il volume giunge, la mediazione offerta dal rame nei confronti della pietra e del legno, ha favorito la nascita di due forme della razionalità: il numero e la scrittura, che connoteranno l’età dei metalli, vale a dire l’età storica propriamente detta.

È appena il caso di notare come la lavorazione della pietra in blocchi squadrati per la costruzione di complessi architettonici disposti nello spazio grazie alla piombatura (piano verticale) e alla livellatura (piano orizzontale) interagisce con la formalizzazione matematica e geometrica al pari dell’agrimensura e dell’astronomia.

Ben più suggestivo, invece, è osservare come la nave autoportante (composta di elementi uguali) e la navigazione come esperienza totale (scoperta dell’altro con cui comunicare, urgenza del segno da lasciare in caso di scomparsa), abbiano suggerito lo sviluppo della scrittura, sistema di composizione di segni per vari scopi sociali (eredità, autorità politica, autorità religiosa, contratto).

Entrambe, per Ruta, hanno una duplice base: costruttiva e simbolica.

Da un lato, navigazione e scrittura presuppongono un determinato livello di sviluppo dell’organizzazione sociale del lavoro, del reperimento delle materie prime strategiche ed un determinato livello di competenze tecnologico-industriali. Ed effettivamente, in Oriente come in Occidente, a far bilico sul Ⅴ millennio, cioè prima dell’età del bronzo matura, il sistema legno-rame-pietra si manifesta insieme alla scrittura, e viceversa. Chiaramente, questa corrisponde alla complessificazione dei bisogni comunicativi in un’epoca di grandi trasformazioni che alla fine culminerà nell’integrazione stabile dei metalli nel sistema pietra-legno. La scena dell’homo faber, così, presuppone il lungo e laborioso cammino dell’Uomo del Rame. Al momento del passaggio di consegne, infatti, la scrittura, che secondo Ruta insieme alla navigazione marittima rappresenta il più elevato risultato della civiltà prima della Storia, aveva già al suo interno tutte le funzioni principali che manterrà in età storica: dalla registrazione dei traffici, alla registrazione delle volontà, fino alla manifestazione dell’autorità umana e divina.

Per questo, secondo Ruta essa è rimasta un’arte aperta nonostante tutte le restrizioni elitarie a cui era inevitabilmente sottoposta. La scrittura aveva già assunto una sistemica funzione comunicativa legata alla vita materiale. E, dati i suoi caratteri di mobilità, apertura e flessibilità, essa sembra aver derivato la sua matrice più dal legno che dalla pietra, legata com’è alla staticità, alla linearità e all’immobilità. Due razionalità e due tecnologie, operanti su piani diversi, possedevano, dunque, codici comuni e maturavano negli stessi contesti temporali.

Ma, dall’altro lato, ed è ciò che è più importante, la scrittura svolgeva un ruolo fondamentale nella comunicazione simbolica, di cui diventerà depositaria. Anche in questo caso, secondo Ruta, va notata la similitudine con il legno e con la navigazione in mare aperto. La scrittura, infatti, è fatta di segni aperti a qualsiasi orizzonte di significato, flessibili e duraturi al tempo stesso; con un punto di partenza noto, ed un approdo indeterminato. La scrittura risponde perfettamente al simbolismo dell’incertezza, derivante dalla fluidità e dalla mobilità dell’acqua, solcata dagli scafi, quanto il supporto inciso dai suoi caratteri. Forse per questo, suggerisce Ruta, essa ha condensato la rappresentazione del sacro e dell’eterno, più della figura.

Da questo punto di vista, emblematico è l’uso metaforico della barca nei rituali funerari egizi, che mimano il viaggio dopo la morte. Diffusamente ripresi nei corredi funerari dei grandi mausolei piramidali, essi testimoniano una concezione della morte allo stesso tempo come riposo e come viaggio, esprimono infine il bisogno di rapportarsi alla morte in termini di durata, di sopravvivenza, che vengono al pari soddisfatti dal segno inciso, cioè dalla scrittura, altro componente immancabile dei mausolei. Non a caso, per Ruta, la barca solare di Cheope risalente al III millennio, su cui probabilmente il faraone fu portato l’ultima volta per la sepoltura, e che fu smontata e conservata nei pressi della piramide, dà la misura dei nessi tra questi due livelli.

 

* Storico, Dottore di ricerca, Università degli Studi di Catania


NATO-Russia. Le propagande, i paradossi della controffensiva 

ucraina e la svolta terroristica

di Carlo Ruta


È dai primi di febbraio 2023 che, con gli apporti propagandistici dell’informazione occidentale, i governi NATO e Kiev annunciano una controffensiva ucraina. Ed è anomalo che se ne parli così tanto. È strano soprattutto che ne parlino gli ambienti che dovrebbero scatenarla e sostenerla. In sostanza gli ucraini e i poteri euro-atlantici sembrano «interloquire» con i loro nemici, i Russi, sulla prossimità di tale contrattacco. Tutto questo appare, evidentemente, come privo di senso. L’offensiva è un evento, tattico ma con funzione strategica, che può riuscire e produrre benefici, tattici o strategici, solo se è pianificato in un regime di massima segretezza. In altri termini, l’effetto sorpresa è il fondamento e la ratio per le strategie di attacco di questo tipo. E la storia delle guerre, di ogni epoca, documenta al riguardo un canovaccio sostanzialmente univoco. È il caso di portare due esempi.

L’offensiva del Têt in Vietnam, fu un attacco a sorpresa su larga scala lanciato, sotto la guida del generale Giap, dall’esercito nordvietnamita e dai Vietcong durante la notte del capodanno vietnamita, cioè tra il 30 e il 31 gennaio 1968, quando presidente degli Stati Uniti era Lyndon B. Johnson, l’artefice dell’escalation del conflitto. I primi risultati furono favorevoli ai nordvietnamiti e Vietcong, proprio per l’effetto sorpresa, ma nei mesi successivi le truppe statunitensi e quelle sudvietnamite riuscirono a recuperare i territori perduti. Contò in realtà la sproporzione delle forze in campo. E i numeri ne danno conto. A conclusione della campagna del Têt i nordvietnamiti e il Fronte di Liberazione Nazionale, i Vietcong, contarono circa 60.000 morti, mentre gli americani ne ebbero poco più di un migliaio e l’intera coalizione poco più di 4.000. Per i Nordvietnamiti e i Vietcong si trattò tuttavia di una grande vittoria morale, che ebbe risalto in tutti i continenti e determinò un forte scollamento tra l’establishment statunitense e l’opinione pubblica di quel paese. Quello scollamento, corroborato da movimenti di estensione globale che si proprio proprio da quell’anno, il Sessantotto, portarono alle dimissioni della presidenza Johnson, a grandi contestazioni in tutti i continenti, mentre la guerra americana infuriava ancora, e infine alle trattative di pace, che nel 1975 determinarono il ritiro degli Stati Uniti dal Sud Est asiatico.

Ancora in una situazione di segretezza venne pianificata l’offensiva delle armate italiane di Vittorio Veneto, nella fase finale della prima guerra mondiale. Partita il 25 ottobre 1918, sotto il comando dei generali Armando Diaz, Gaetano Giardino, Luigi Cadorna, scompaginò infatti le fila austro-ungariche, che di fatto non si riebbero più da quell’immenso attacco a sorpresa. Dietro c’era il disastro di Caporetto e la difesa della linea del Piave. Fu quindi uno degli assalti finali che posero fine alla guerra con la sconfitta degli imperi centrali, la Germania del Kaiser e l’impero austro-ungarico.

Evidentemente, l’attuale situazione in Ucraina, è tutt’altra cosa e non richiama affatto l’imponenza di quelle grandi operazioni strategiche. E l’investimento propagandistico è troppo forte per non far supporre altro. Ma che cosa? Come interpretare una condotta tanto carnevalesca nello scenario che contrappone l’Ucraina con il pieno sostegno NATO e la Russia? Per tentare di dare una risposta occorre partire da alcune situazioni di terreno e in particolare da una serie di fatti ormai acquisiti, che non possono più essere elusi dai governi occidentali e da Kiev.

Si può prendere allora le mosse da un primo dato: la Russia non può essere battuta alle condizioni presenti, quelle di una guerra anomala, per mandato esterno sostanzialmente, perché la sproporzione sul terreno di mezzi militari, nonostante il sostegno ormai aperto dell’Occidente, rimane enorme. Enorme rimane inoltre la sproporzione tra le truppe mobilitate e mobilitabili. Si arriva allora ad una prima conclusione: per evidenti ragioni egemoniche, di supremazia geopolitica, l’Occidente ha armato fino ad oggi, in Ucraina, un massacro tanto grande quanto poco funzionale e inutile per i propri interessi.

Esiste poi un altro fatto assodato, che ormai deve risultare ben chiaro ai governi occidentali: le sanzioni, pur crescenti e invasive, nei riguardi della Russia, non hanno inferto al sistema di quelle repubbliche i danni, economici e politici, che erano stati previsti. Tali penalizzazioni sono servite invece, con tutto il resto, a compattare le popolazioni russe attorno al loro governo federale di Mosca, sotto le insegne di una guerra patriottica. E la situazione si rovescia ulteriormente perché le sanzioni hanno prodotto danni immensi proprio all’Occidente, travolto da problemi economici di terreno e soprattutto da una inflazione che, per la prima volta dopo trenta e più anni, già raggiunge di fatto la doppia cifra.

Va in scena, evidentemente, a tutto tondo, la grande miopia politica e geopolitica di questo «mondo libero», oltre che la manifestazione più letale del suo cinismo, di fatto illiberale. È un po’ la condizione del giocatore d’azzardo che sa solo rilanciare e non è più capace di ponderare e orientarsi. Va aprendosi allora una nuova fase, in cui s’intensifica tutto: cresce in tutti i paesi la corsa agli armamenti; cresce il sostegno militare a Kiev con l’invio di armi sempre più potenti e letali; s’inferociscono i combattimenti, nelle logiche della guerra totale contro i russi che erano di Stephan Bandera; diventano sempre più invasive e opprimenti le propagande alla volta delle opinioni pubbliche occidentali. Cresce inoltre lo scollamento tra i governi bellicisti e le popolazioni civili. E il caso dell’Italia, dove la maggioranza delle cittadinanze non si riconosce nelle politiche armate dei governi, al riguardo è molto istruttivo.

Un ulteriore dato di fatto, riguardante l’Occidente, è l’uso spregiudicato di armi ibride. Una di queste è l’incriminazione di Putin per rapimento di migliaia di bambini che, emessa dalla Corte Penale dell’Aja, secondo i media europei avrebbe dovuto portare il presidente russo dietro le sbarre e che invece è evaporata appena due giorni dopo. C’è poi la telefonata tra Zelensky e Jinping, che avrebbe dovuto rovesciare assetti e alleanze e invece ha prodotto fiumi di parole e nulla di più. Appare istruttiva infine la voce, raccolta dagli ucraini e ancora rilanciata dai solerti media occidentali, di una presunta svolta di Cina e India antirussa e filo-occidentale in sede ONU, presentata come «un sorprendente sviluppo diplomatico» ma priva in realtà di ogni fondamento.

È all’opera insomma una sorta di Circo Barnum, una grande messa in scena dell’Occidente, che ha vari scopi, tra cui non secondario è quello di rendere «invisibile» il disastro di Bakhmut, la cui caduta, quasi completata, fornisce una chiave di lettura oggettiva sulla situazione in atto. Si fa il possibile per tacere i numeri reali dei caduti ucraini, soprattutto giovani coscritti mandati al fronte con la forza, per sostenere le strategie NATO e del gruppo di potere che fa capo a Zelensky. Vengono diffuse infine ad arte notizie secondo cui la Russia ha già perso la guerra ed è ormai fortemente indebolita: cosa che, come si è detto, fa a pugni con la realtà oggettiva, dal momento che le armate russe controllano circa l’80 per cento del Donbass e stanno fortificando in maniera strategica i confini tra le repubbliche inglobate nella Federazione e l’Ucraina.

In realtà, nell’attuale situazione l’unico fattore destabilizzante per la Russia potrebbe essere la formazione di una forte opposizione al governo, organizzata con un’ampia base popolare. Ormai da anni l’Occidente preme perché tutto questo avvenga, con il sostegno a personaggi più o meno ambigui, ma come documentano i sondaggi d’opinione più obiettivi e autorevoli questo non è avvenuto, e in questo periodo di scontro aperto non sta avvenendo. Per dire dei dati più recenti, il consenso al sistema Putin che emerge in maniera pressoché univoca dai sondaggi più significativi e referenziati, ripresi dall’agenzia-rivista «Globalist», continua a crescere. Dal 72% dei primi mesi del 2023 si è passati al 75% del mese di aprile. Si tratta, evidentemente, di un consenso che è molto superiore a quello che riscuote la totalità dei governi occidentali.

Quali conclusioni si possono trarre allora dagli elementi sin qui riportati? La controffensiva tanto ostentata si presenta, alla luce di tutto, come una sorta di bluff, una manovra propagandistica di Kiev e dell’Occidente per depistare, nello stesso tempo, il nemico russo e le opinioni pubbliche europee. Si presenta, in particolare, come una operazione comunicativa nel passaggio ad una nuova fase della guerra: di una guerra cioè che, come si è detto, non è stata e può essere più vinta da Kiev e dai committenti occidentali con i sistemi usuali. Non è cosa possibile sul terreno militare-convenzionale, né sul terreno delle sanzioni punitive, né su quello ibrido-propagandistico. La nuova fase della guerra, come una sorta di estrema ratio, si sta spostando allora lungo un percorso terroristico, nell’alveo del peggiore nazionalismo novecentesco, di cui Stephan Bandera fu uno dei capifila. E i segnali, ormai da mesi non mancano.

Atti gravissimi di terrorismo sono stati già nei mesi scorsi l’uccisione della filosofa giovanissima Darya Dugina, nell’agosto 2022, e del giornalista di guerra Vladlen Tatarsky: entrambi uccisi, la prima a Mosca e il secondo a San Pietroburgo, da squadre di sicari operanti in Russia, secondo varie agenzie di osservazione internazionale, su mandato dei Servizi di sicurezza di Kiev, con l’apporto tecnico e logistico di ambienti occidentali. Un atto non meno grave è stato nell’agosto  il sabotaggio dei gasdotti Nordstream 1 e 2 nel Baltico, del quale Seymour Hersh, firma autorevole del New York Times, premio Pulitzer e autore di un’ampia inchiesta sull’argomento, ha identificato la matrice negli ambienti dell’Intelligence militare statunitense e in ambiti europei connessi. Il ritrovamento di 17 kg di esplosivo su un drone caduto nei pressi di Mosca a fine aprile 2023, fornisce ancora elementi importanti, studiati tra l’altro dal Washington Post, che ne individua la matrice nei servizi segreti ucraini diretti sempre più opacamente da Kyrilo Budanov.

Nel sito del leader ucraino Zelensky è apparsa intanto, ancora a fine aprile, una petizione per la creazione di un «Ordine» intestato Stepan Bandera che, fautore del terrorismo nazionalistico estremo, si alleò appunto con il nazismo hitleriano per combattere, con gli strumenti che gli erano congeniali, la Russia sovietica. Una operazione nostalgica o una forma mimetica di reclutamento per operazioni oltre le linee? Come è nelle logiche e nella storia della peggiore destra nazionalistica nel secondo Novecento, dall’Europa all’America latina, si sono avuti inoltre, in Russia, i primi attentati alla cieca. Un atto terroristico di questo tipo, a fine aprile, ha preso di mira un treno commerciale, fatto saltare con una carica di esplosivo a Bryansk, nel territorio russo. E ancora una volta ambiti della comunicazione, soprattutto statunitensi, e osservatori internazionali, individuano i mandanti nei servizi segreti ucraini. Alla luce di tutto ciò, nel «nuovo corso» della guerra, attacchi terroristici ad alzo zero sono prevedibili nelle grandi città russe, come Mosca e San Pietroburgo, con bersagli preferenziali nei centri del potere politico-istituzionale, oltre che in Crimea, nel Donbass dove tuttavia gli attentati di questo tipo sono tutt’altro che una novità dal 2014.

Tirando le fila di ragionamento, comincia a delinearsi allora una controffensiva possibile, riservata, oscurata da quella fittizia di cui si parla in maniera parodistica da mesi. Ed è qui allora il nocciolo della questione. Una guerra diventata ormai difficilissima e di fatto impossibile da gestire per l’Occidente e il governo Zelensky, potrebbe ritornare governabile attraverso una serie di operazioni asimmetriche, di atti clamorosi, in grado di terrorizzare le opinioni pubbliche. Tutto questo appare coerente con l’oltranzismo di Kiev, gli apostoli di Bandera che vogliono la guerra totale contro la Russia e fanno di tutto per portare la situazione ad una vera e propria crisi globale. Tutto questo appare coerente infine con le condotte dell’Occidente euro-atlantico, che giorno dopo giorno, con l’uso di armi ibride appunto, cerca di abituare le opinioni pubbliche alle nuove strategie di guerra, che in questa fase propedeutica, tende a dissimulare facendole passare come atti indecifrabili, mentre non smette di additare i governanti e le popolazioni russe come terroristi per costituzione. La corda in realtà rischia di rompersi. Le opinioni pubbliche e le cittadinanze occidentali fremono, perché stanno pagando prezzi troppo alti, in tutti i sensi, per finalità che non appartengono ai loro orizzonti di vita. Fino a quando saranno disposte a sostenere allora le miopie crepuscolari dei loro governi?


2 maggio 2023



L’età logica, delle lingue d’Europa e degli Studia generalia 

Convegno internazionale in Sicilia sul Medioevo. Una occasione di studio e di discussione per scandagliare alcuni caratteri forti dell’«Età di mezzo» dell’Occidente negli orizzonti delle premodernità globali

Il «Laboratorio degli Annali di storia», Ente di studi storici no profit diretto dallo storico Carlo Ruta, ha annunciato il 2° Convegno internazionale Luci sul Medioevo: età logica, età delle lingue d’Europa, età degli Studia generalia, che sarà tenuto a Ragusa nella giornata di sabato 11 marzo 2023, mattina e pomeriggio. Questo Convegno, che avrà carattere multidisciplinare, viene organizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, il Centre National de la Recherche Scientifique francese, l’Università degli Studi di Genova, il Laboratorio di Storia Marittima e Navale dell’Università di Genova e l’Università di Siena.

Attraverso questo momento di studio e di discussione, spiega Carlo Ruta, direttore scientifico degli Annali di storia dei mutamenti globali, «si intende perseguire uno scandaglio aperto che, al di là delle polarizzazioni e delle dicotomie persistenti, luce/buio, progresso/decadenza e simili, solleciti nuovi sguardi, ‘laterali’ ma con visione globale, sugli scenari lunghi e complessi che da una varietà di prospettive hanno precorso la modernità e in maniera sostanziale ne hanno incubato e istituito i caratteri». Osserva ancora lo storico che «le tre prospettive prescelte per il Convegno, le tensioni logico-dialettiche, la formazione di lingue europee e l’organizzazione premoderna degli studi, legate tra loro da organicità, complementarietà e forti interazioni causali, possono essere focalizzate come strutture paradigmatiche nel quadro di esperienze inventive, costruttive e organizzative che a partire da quelle età si sono rivelate, lungo i tragitti della modernità, tra le più vitali e resistenti». E aggiunge: «Obiettivo centrale di questo appuntamento internazionale è di avviare allora una discussione mirata, a misura di problematiche che sul piano dell’indagine storico-antropologica, presentano non pochi campi aperti, e che, nei contesti dello studio delle premodernità possono essere scandagliati oggi con strumenti critici e metodologici molto affinati».

Il convegno si avvarrà di un ampio parterre di studiosi, appartenenti appunto a vari campi disciplinari, di cui è stato già diramato un elenco parziale. Sarà il direttore scientifico Carlo Ruta ad aprire i lavori con una relazione sulla «premodernità lunga dell’Occidente come età logica, delle lingue e degli Studia generalia», con l’enunciazione di tesi che costituiranno la base della discussione. Si snoderà quindi un dibattito articolato che vedrà partecipi storici, antropologi, filologi, linguisti, epistemologi e filosofi italiani ed esteri.

Tra i relatori: la linguista Graziella Acquaviva, lo storico moderno Emiliano Beri, lo storico della letteratura francese Luca Bevilacqua, il filologo e storico del mondo antico Carlo Giovanni Cereti, lo storico del Diritto medievale Alessandro Dani, l’antropologa culturale Annalisa Di Nuzzo, lo storico del Cristianesimo Michael H. Feldkamp, lo storico moderno Giuseppe Foglio, l’archeologo e medievista Emanuele E. Intagliata, il medievista Marco Leonardi, l’archeologo classico e storico dell’Arte Clemente Marconi, lo storico della Filosofia medievale Concetto Martello, la linguista e storica delle letterature Giovanna Minardi, la storica medievista Sandra Origone, la storica della letteratura cinese Giuseppa Tamburello, l’epistemologo e storico delle scienze Giuseppe Varnier.



L’Europa necessaria e il nuovo equilibrio mondiale

Riflessione sul seminario di Carlo Ruta su L'Europa va alla guerra e il radicalismo etnocentrico, tenuto il 17 ottobre 2022

di Giuseppe Foglio

 

Il ragionamento di Carlo Ruta, traboccante di spunti di riflessione ed approfondimento su numerosi temi di storia e cultura, a mio avviso, è unificato dall’intenzione di instaurare un nesso tra storia e presente attraverso quello che con la tradizione delle Annales, chiamerei metodo mediterraneo. Vale a dire quella forza di trasformazione esercitata sul metodo storiografico dagli studi sul Mediterraneo e, aggiungerei, sull’Europa. Com’è noto, gli studi sui mutamenti di struttura in Europa e nel Mediterraneo nel Medioevo e nell’Età moderna di Braudel e, in generale, degli storici della scuola delle Annales, o ad essa ispirati, hanno richiesto un rinnovamento del metodo storiografico che ponesse al centro i processi di lunga durata durante i quali movimenti di popolazione, scambi commerciali e di saperi, o guerre, producono il cambiamento silenzioso che sfocia ibridazione culturali e sintesi antropologiche non sempre consapevoli. Come sottolinea Ruta, oggi tutto questo è un patrimonio consolidato per gli studi storici di ogni settore. Tale metodologia è in grado di evidenziare una storia sommersa e, direi, contrapporre la storicità sommersa del collettivo anonimo all’histoire diplomatique che era dominante nella storiografia tanto quanto era dominante l’Europa nel mondo fino all’Ottocento, se non anche al Novecento. Ed infatti il metodo evenemenziale era dedicato alla storia degli stati europei, dei grandi uomini, dei grandi eventi. Ma, oggi, che il processo di unificazione europea – di per sé in una crisi annosa, per non dire congenita e permanente – si confronta con l’emergere di nuove potenze mondiali e, in particolare, di un ritorno dell’Asia al centro della storia universale, quell’approccio è più che mai attuale. Di più, esso è in grado di rendere visibili e comprensibili dinamiche che difficilmente possono essere focalizzate con il metodo diplomatico, proponendosi per una riforma della metodologia storiografica corrispondente al mutamento di rapporti egemonici tra Occidente ed Oriente che si delinea nella storia mondiale. Come non rivalutare oggi la domanda posta dallo strutturalismo a conclusione della storia medievale e della storia moderna: perché la Cina non ha invaso il Mediterraneo e l’Europa?

Se la parabola della storia universale euro- e occidento-centrica risulta dominata da quell’interrogativo, oggi come non ricostruire la storia e, soprattutto il futuro, della globalizzazione partendo dall’assunto, antihegeliano, che l’Oriente è, o va a ridiventare, il centro del mondo?

D’altra parte, va notato anche che il processo in corso è costellato e punteggiato da fenomeni, eventi ed anche singoli fatti storici dal chiaro sapore ottocentesco, come le polemiche territoriali, economiche o diplomatico-culturali alimentate da governi quali per esempio quello cinese, o russo, ma anche indiano e turco. Alla luce di questi fenomeni, tutt’al contrario di prima, si dovrebbe di nuovo por mano alla cassetta degli attrezzi politico-diplomatica, o meglio strategica, che rappresenta il patrimonio privilegiato della grande storia – e storiografia – occidentale per comprendere l’importanza delle piccole guerre nella ricomposizione del nuovo ordine di potenza mondiale. Quale? Quello di un’egemonia cinese, o asiatica? Oppure, quello di un nuovo equilibrio, questa volta mondiale – e tra superpotenze, dopo quelli, andando a ritroso nel passato moderno e medievale, europeo (tra potenze nazionali) e italiano (tra potenze regionali)?

Anche in questo caso, la storia mostra tutte le sue potenzialità ricostruttive del passato e la sua insostituibile capacità di illustrare le vie del futuro attraverso la lettura del presente.

Ed è proprio la questione del presente a porsi in rilievo nel quadro di queste brevi annotazioni. In verità, sono molte le direzioni che il discorso potrebbe intraprendere, ma vorrei qui suggerire la seguente, apparentemente incoerente, marginale, e forse provocatoria: quale posto occupa oggi la storia nel sistema di istruzione europeo e italiano? È l’istruzione ancora un pilastro della cultura e della cittadinanza in Italia ed in Europa?

Bisogna subito dire che ci troviamo di fronte ad una situazione schizofrenica, o più banalmente ipocrita: da un lato le competenze civiche e sociali vengono enfatizzate in ogni discorso programmatico, soprattutto in sede politica; dall’altro, negli ultimi decenni, si è verificata una sistematica riduzione delle ore di insegnamento della storia ed un continuo incremento di attività da svolgersi con metodologie innovative (Clil, Nuova educazione civica) che ne hanno modificato l’identità disciplinare e, di conseguenza, il contributo al profilo formativo dei giovani cittadini. Sicuramente, ciò ha comportato anche effetti positivi proprio sulla dinamica interdisciplinare ed attualizzante della trattazione di tematiche del passato. Ma è altrettanto urgente una riflessione sugli spazi, i tempi e i modi dell’insegnamento della storia nella scuola europea del XXI secolo. Farne sempre più il luogo di progetti con obiettivi formativi divergenti, o trasversali, rischia di far perdere completamente identità ad una disciplina, che al contrario mantiene intatto il suo valore didattico di tipo ricostruttivo e riflessivo, a prescindere da ogni fondata critica all’idealismo e allo storicismo dominanti nel passato.

In ciò, la storia resterebbe centrale anche rispetto al progetto di formazione permanente del cittadino europeo proposta dal Consiglio europeo nella Raccomandazione del 2018 sull’apprendimento permanente. In quel testo, infatti, si declinano le competenze come atteggiamenti critici verso la realtà contemporanea che consentano al cittadino di aggiornare continuamente i suoi paradigmi interpretativi, adattivi e di giudizio sulla realtà stessa. Tuttavia, in quel testo non c’è menzione della storia come tale, o della filosofia come tale. È questo un tema di discussione? È un problema culturale del nostro presente? E di quale ordine di grandezza?

Può la società europea procedere, come dire, alla cieca nel pericoloso contesto politico mondiale e, alla stessa maniera, confondere la formazione della coscienza del cittadino europeo con la diffusione di strumenti cognitivi e affettivi per la gestione del cambiamento professionale e geografico del lavoratore del futuro?

A mio avviso è di importanza fondamentale aprire una discussione pubblica su queste tematiche, che, per sintesi, potrei definire come elementi di una storia del presente. Tuttavia, la ricerca delle forme e dei modi per sviluppare tali progetti trascende i limiti del presente scritto e, pertanto, va rinviata ad una sede più ampia ed approfondita di dibattito.


Perché la storia può migliorare il mondo che verrà

Il manifesto di Carlo Ruta accende il dibattito nel mondo scientifico

e culturale europeo. Intervista allo storico 


Nella prospettiva della memoria del passato come valore che si aggiunge al presente, la storiografia riveste un ruolo fondamentale. La sua proposta di un manifesto per l’innovazione della storia quale contributo può offrire in questo circolo virtuoso? 

In questa fase della contemporaneità, la storia non vive momenti facili. Viene a trovarsi troppo spesso sotto attacco, come conoscenza «inutile», e tale disistima rischia di lasciare il segno. Nulla di nuovo, in realtà. Questi radicalismi sono correnti nei momenti di crisi, quando la conoscenza del passato viene avvertita come un pericolo. È quel che è avvenuto, ad esempio, tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento, quando un certo rigetto della storia ha sedimentato culture fieramente nichilistiche, che hanno contribuito infine a generare catastrofi. Già solo per questo è importante che si prendano iniziative, che si apra una fase di riflessione diffusa, che si cerchi di aprire varchi di confronto interdisciplinare, di livello strategico. Il manifesto nasce insomma da esigenze oggettive. Si vivono tempi di crisi, il mondo di oggi è in subbuglio, lo vediamo tutti i giorni, i circoli viziosi minacciano di prevalere su quelli virtuosi. È importante allora che la ricerca storica si apra, faccia quel che le è dovuto, mettendo in campo il meglio delle proprie virtualità, intercettando in primo luogo i bisogni di conoscenza che provengono dagli ambiti sociali più maturi e responsabili.  

Su questo sfondo, qual è il ruolo che lei attribuisce alla storia nel mondo attuale?

La storia è diverse cose. Prima di essere la conoscenza organizzata delle relazioni causali nei fatti umani, essa è la concatenazione stessa dei fatti, una struttura temporale e, direi, la condizione esistenziale di ogni individuo umano, come lo sono la natura e la società materiale in cui si vive, ma con delle diversità. Immaginiamola come una «casa», oppure come un orizzonte in profondità nel quale si vive immersi, che lascia infine un’anamnesi, incisa come in una «scatola nera». Non esiste persona che non possieda una propria nozione, per quanto semplificata, del passato, suo, della sua famiglia, della sua città, degli ambienti in cui ha vissuto. E questo è in fondo il punto di partenza, il sostrato, il grumo originario della conoscenza storica. La ricerca storica serve a ricordare meglio, ad allargare, a problematizzare e a rendere più utilizzabile il contenuto di tale «scatola nera». Essa non è antiquaria, né il culto del passato. Non si tratta di un invito prudente alla conservazione, come lo era ad esempio il mos majorum invocato in ambienti aristocratici della Roma repubblicana, cioè l’assimilazione dei costumi degli antenati da cui lasciarsi guidare. Nulla di tutto ciò. La storia, come conoscenza, può essere concepita ed esperita come ricerca del punto di equilibrio e di stabilità, per quanto di volta in volta provvisorio, tra quel che il passato suggerisce di utile e di progressivo in termini di consapevolezza e la necessità di scegliere, prefigurare, rischiare e portarsi oltre. Nei disagi che opprimono il presente, la storia, in sinergia con altre scienze, in una chiave anche transdisciplinare, può giocare allora una parte importante, utile a restituire senso alle cose. La conoscenza storica può suggerire modelli di vita, può educare alla complessità, raffinare il senso civico. Ma, si badi, essa può anche depistare, mistificare, traviare, confondere. Ed è qui che le cose si complicano.

Quale allora la via maestra, oggi? 

Ferma restando la giusta attenzione che meritano le esperienze più feconde del Novecento, credo che alla ricerca storica serva oggi, alla luce di quel che il mondo è realmente, un impegno rinnovato a mettersi e a mettere in discussione, che porti ad una ridefinizione dei compiti, in una logica di aperture, dialoghi e orizzontalità a tutto campo. Si tratta di scandagliare territori off limits, di sporcarsi le mani quando occorre, di mobilitare il più possibile il «punto di vista», di lanciare sulle cose un pensiero «obliquo» e progressivo. E tuttavia ciò potrebbe non bastare, perché bisogna essere disposti a cedere qualcosa, a sacrificare, in maniera lungimirante, anche posizioni e privilegi. Oltre che i bacini della storia andrebbero estesi infatti, nell’accezione più piena, i laboratori e le fucine della storia. Non si può fare con pienezza «storia globale» se poi il punto di vista egemone rimane di fatto quello eurocentrico e occidentalista, dal momento che la ricerca storica che ha veramente peso egemonico insiste ad essere localizzata in un circuito ristretto di ambienti euro-atlantici. Mettersi in discussione vuol dire allora porsi all’altezza dei problemi.  

In che modo?  

Questa egemonia viene ovviamente da molto lontano e ha cause complesse, ma qui è il caso di soffermarci sul dato di oggi, che, davvero, non è confortante. I filtri e i piani inclinati che ancora persistono nella ricerca storica costituiscono a ben vedere un’ingessatura che, in modo anche autolesionistico, alla fine non aiuta a muoversi con sicurezza e a progredire come si vorrebbe. Urgono allora, oltre che cambi di passo, anche rinunce e mutamenti di prospettiva. Mettersi in discussione vuol dire, nello specifico, ricerca di una orizzontalità attiva, che faccia bene a tutti e che permetta alle società di conoscere meglio il mondo. Proviamo a chiederci, ad esempio, che peso reale abbiano oggi, nella ricerca «globale», le storiografie sudamericane e mesoamericane, quelle centroasiatiche, quelle centroafricane e neozelandesi, quelle scandinave e dei nativi americani. A conti fatti, ben poco. La storia, per essere globale, nel senso più dinamico del termine, è invece necessario che diventi storia di tutti, polimorfica e policentrica, sul piano organizzativo e logistico oltre che su quello dei contenuti. Mettersi in discussione vuol dire in realtà rinunciare sì a qualcosa, mettere in gioco il punto di vista che sentiamo come nostro, superiore, trascendente o perfino universale, ma per attivare infine, rivalutando nella storia la dimensione dell’ascolto e del dialogo, processi di crescita e nuove consapevolezze. Non si tratta allora di un cedimento o di un impoverimento ma, appunto, di un arricchimento lungimirante e strategico.

Quali benefici possono derivare da una storia di questo livello? 

Una storia che vada in questa direzione può avere effetti importanti. Può aiutare, come si diceva, le società ad orientarsi, a rifuggire dai nichilismi e dalle chiusure iper-identitarie che infestano l’epoca. Al cospetto di criticità che arrivano a minacciare anche i processi cognitivi e logici, una storia all’altezza dei problemi, con il contributo di altri saperi, può creare argini possenti. Sul piano etnico, culturale e sociale, essa può sostenere processi di pacificazione, di coesione, di erosione progressiva del pregiudizio: un vizio umano, questo, ancora poco identificato che, da tempi molto lontani, porta a concepire l’altro, il «differente», generato dalla destrutturazione del simile, come ladro di risorse, quindi come ostacolo da abbattere. Ladri di risorse sono diventati di volta in volta, fino ai nostri giorni, il cananeo, il barbaro, il cristiano, l’ebreo, il fariseo, il filisteo, il musulmano, il protestante, il valdese, l’albigese, il selvaggio, lo straniero, il meticcio, lo zingaro, l’omosessuale, la «strega» e così via.

Come ripensare allora la storia? 

Senza che venga meno il suo carattere di scienza delle complessità sociali e delle cause, al di là quindi di ogni interpretazione finalistica, la storia può occupare un posto importante nel ridisegno di una possibile costituzione del vivere. Dialogando con la biologia, essa può sostenere un recupero forte della naturalità, dell’organico, a detrimento dei grovigli tecnologici e del sintetico che hanno creato danni anche irreparabili agli ambienti e alla vita, fino a compromettere risorse fondamentali come l’aria e le acque. La storia, prodotta, narrata e bene assimilata dalle società civili, può aiutare a rallentare le frenesie del tempo iper-tecnologico e ristabilire le misure del tempo naturale e del lavoro manuale. Può ridare slancio, ancora, alla polis, alla città aperta, può rafforzare quindi le difese della democrazia e delle libertà da tutto ciò che può minacciarle. Può sollecitare, ancora, le società ad autoanalisi profonde, che le aiutino a disporre con maggiore razionalità e misura delle loro risorse.

Un’ultima domanda: cosa è avvenuto dopo l’uscita del suo Manifesto?  

Come si può ben comprendere si è trattato di una scommessa, che sta andando a buon fine. E per la verità non ne sono molto sorpreso, perché i problemi che si è cercato di porre in luce, allo stato delle cose, non sono sottovalutabili. Non è stata una decisione presa dalla sera alla mattina ma frutto di una riflessione lunga, che mi ha accompagnato in questi anni di studio, su una varietà di fronti. Riflessione che è stata facilitata peraltro da una lunga serie di opportunità, di contatto e di confronto che ho avuto con una pluralità di mondi, sociali, culturali e generazionali. Adesso il dibattito è aperto. Da tutta Europa stanno arrivando adesioni e contributi scritti, che arricchiscono il documento e che usciranno tra alcune settimane a stampa. È il secondo gradino e ne seguiranno altri. 

( 14 ottobre 2020 )

Intervista a cura di Flora Bonaccorso